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lunedì 7 luglio 2014

Appello a Repubblica per una informazione che non beatifichi gli assassini di donne e bambini


Ne ho parlato qui poco fa. Di articoli pessimi sul femminicidio o sulla strage familiare del giorno ce ne sono ad ogni amaro appuntamento. Se dovessimo metterci in fila per protestare con ogni redazione un giorno sì e l’altro pure ci sentiremmo come nell’atto di svuotare il mare col proverbiale cucchiaio o bicchierino o secchiello, che dir si voglia. Anzi, no, ci sentiamo già così. Ogni tanto ci si illude che un appello collettivo, un seminario, un convegno al senato, possano indurre il mondo del giornalismo alla responsabilità collettiva, perché di responsabilità si parla. Il modo in cui si racconta la realtà va a sostituirsi alla percezione della stessa. I mezzi si fanno formatori del pensiero e possono creare alibi morali. Possono anche offendere la memoria delle vittime, offendere le loro famiglie oppure, come in questo caso, offendere persone ancora vive ma non in grado di difendersi. Non abbiamo bisogno di rinnovare la colpevolizzazione delle vittime, la famosa rivittimizzazione secondaria. È un processo quotidiano e spontaneo che si autoalimenta.
Le vittime non vincono mai, nemmeno moralmente, non in questa nazione che vive la presenza femminile come una presenza di servizio. Subiscono spesso una vita infernale, subiscono la morte, talvolta una morte particolarmente crudele e subiscono anche la solidarietà verso i loro aguzzini, la diffamazione post mortem.
Le donne non muoiono mai abbastanza. Non soddisfano mai abbastanza l’incredibile risentimento maschilista che non riesce a trovare il proprio bandolo ed a risolversi in un’autoanalisi. Subiscono anche l’onta della distorsione del significato di “vittima”, confuso spesso con quello di “succube”, e questa interpretazione di una parola, come al solito, vale solo o soprattutto per le donne, sottoposte ad un rigido standard moralista che non lascia comunque mai una via di scampo.
Ripubblico la schermata dell’articolo per il quale è stato scritto l’appello che ripropongo qui sotto.

repubblica articolo


Se si presenta come “padre modello” un aspirante stragista che non ha avuto neppure il tempo materiale di dimostrarsi un padre degno di questo nome ed ha colpito alla testa una ragazza di 24 anni, un’amica di questa ragazza ed un bambino di 2, se si presenta la fine di una relazione come un “cortocicuito” e poi al tempo stesso si riferisce che era “un tipo geloso” che c’erano state discussioni, che si era forse “allarmato” perché la ex si stava rifacendo una vita, se si descrive contemporaneamente anche l’armamentario rinvenuto nell’ auto di un uomo spinto da metafisici “rabbia, paura e risentimento”, come fossero forze con una volontà capace di sostituirsi a quella di un uomo di 32 anni, ecco, si stanno offendendo migliaia di persone in un colpo solo, anche la loro intelligenza, e si sta trasmettendo una benevolenza ingiusta, intollerabile verso un atto che non può avere comprensione.
C’è comprensione solo verso gli uomini che uccidono donne e bambini come se la loro fosse una decisione obbligata e sofferta, inevitabile, e non una prepotenza intollerabile analoga alla mafia, una mafia familiare.

L’assassino decide, anche quando ha solo frazioni di secondo e in questo caso aveva già deciso quando è sceso di casa con una pistola carica. L’assassino dà vita ad un processo nella propria testa, un processo dispotico dove non c’è parola per la difesa. L’assassino stabilisce una sentenza di morte. Questa è una nazione dove si consente agli uomini di emettere sentenze di morte contro le donne che ledono la loro sovranità. Ciò ci rende simili a quell’Afghanistan, a quel Pakistan, a quell’India che sono sbattuti ogni giorno sui quotidiani nel tentativo di spostare la realtà della violenza patriarcale lontana da noi.
Contemporaneamente in questa nazione si ingannano e riducono alla disperazione le strutture antiviolenza private e con decenni di esperienza sul campo con la beffa di un contributo economico che suona come un’altra sentenza e che non consentirà neppure il pagamento delle bollette.
Contemporaneamente si abolisce la carcerazione preventiva ed il fermo domiciliare per gli accusati di stalking e maltrattamenti.
Tutto questo va in una sola direzione univoca.



Ecco il testo dell’appello apparso sul sito In quanto donna che vi chiediamo di divulgare ed al quale vi chiediamo di aderire

Al Direttore de La Repubblica

Al Direttore de la Repubblica
Ezio Mauro

Gent.mo Direttore,

desideriamo esprimere il nostro profondo disappunto per l’articolo a firma Michele Bocci, pubblicato sull’edizione odierna de La Repubblica. Il “paese sotto shock” di cui si legge nel titolo non è (solo) quello in cui la vicenda descritta si è svolta, ma è (anche) quello in cui tali gravissimi fatti continuano ad essere narrati con simile facilità di stereotipi.

A meno che l’aggressore, protagonista della vicenda, non sfilasse per Armani o Prada- e ciò non risulta, essendo descritto come barista e meccanico –  sembra alquanto inappropriato definire un uomo che ha sparato al proprio figlio e alla madre di quest’ultimo come un “padre modello”.

L’articolo sciorina quasi tutta la serie dei luoghi comuni sulla violenza, dal “gesto inaudito” alla “donna che forse amava ancora”. La realtà è che due donne e un bambino sono stati feriti gravemente in un’aggressione certo non improvvisata (lo stesso giornalista parla di un binocolo, una fionda ed un coltello, oltre alla Beretta semiautomatica calibro nove).

Chi compie questo genere di reato non è quasi mai preda di un raptus, né affetto da patologie mentali. Si tratta per lo più di uomini cresciuti in un contesto culturale, quale quello del nostro paese, che evita di dare al femminicidio la giusta dimensione criminale.

Se non si comincia a dare la corretta informazione su questi crimini quotidiani, rischiamo di rimanere sempre un “paese sotto shock”.

In attesa di un Suo cortese cenno di riscontro.

Emanuela Valente (www.inquantodonna.it )

Segue la lista delle firme.

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