Web Toolbar by Wibiya

mercoledì 18 giugno 2014

IL caso Motta Visconti. Chi agisce, sceglie.

Mi dispiace che ci debbano rimettere la vita donne e bambini innocenti per dimostrare che viviamo in una società menzognera, che cancella sistematicamente e mistifica ciò che risulta scomodo.
Se non sono bastati centinaia di femminicidi ogni anno per evidenziare ciò che puntualmente viene rimosso, il caso della strage familiare di Motta Visconti ha, ancora una volta, dimostrato che:

1) La disoccupazione non è la causa del femminicidio e del figlicidio: l'assassino aveva un lavoro sicuro in una multinazionale.

2) L'ignoranza non è una causa del femminicidio e del figlicidio: l'assassino è laureato.

3) La provocazione non è la causa del femminicidio: non c'era stata alcuna lite precedente. Non si può tirare in ballo il pretestuoso ed inesistente “raptus”. Il triplice delitto è frutto di gelida premeditazione.

4) Il rifiuto dell'atto sessuale non è la causa del femminicidio: l'assassino ha persino ingannato ed usato la vittima facendoci sesso prima di pugnalarla. Forse per tranquillizzarla o per depistare le indagini. La vittima è stata ingannata ed utilizzata prima di essere eliminata.

Femminismofobia: la “retorica femminista” inventata e la censura della violenza di genere

La portata rivoluzionaria del femminismo, rispetto alle menti semplici che elementarizzano ogni concetto, va proprio nel senso opposto rispetto alla banalizzazione. Con questi presupposti non ci possiamo aspettare che i nostri contenuti siano universalmente compresi ed universalmente condivisi. Ci dovremmo, però, aspettare che i nostri contenuti non siano ricostruiti artificiosamente col rischio di attribuire a normali cittadine, a persone come tutte le altre, pensieri che non hanno mai formulato neppure mentalmente, parole che non hanno mai pronunciato, concetti mai messi per iscritto. La conseguenza di questo sistematico processo è la femminismofobia, la quale è funzionale al terrorismo psicologico messo in atto sulle donne affinché non perseguano i propri diritti, non comprendano le ingiustizie che subiscono e si sottomettano docilmente ed autonomamente.
Presto o tardi rivedremo le streghe sui falò, come avviene ancora in Papua Nuova Guinea.
In attesa di biscottare sul mio personale falò, allora, vorrei ancora una volta tentare di spiegare concetti forse ostici in epoca di analfabetismo di ritorno o di analfabetismo funzionale. E anche la perfetta conoscenza grammaticale non sostituisce l’ignoranza semantica.
”Vittima” non è in alcun modo sinonimo di “essere angelicato, puro, innocente, senza macchie, irreprensibile”. Vittima è chi subisce una violenza o un sopruso, indipendentemente da quanto il suo carattere fosse sopportabile.
Che “vittima” non sia sinonimo di “debole, incapace di difendersi, incapace di autodeterminarsi, pavida, fragile” e via dicendo, si è tentato di spiegarlo più e più volte.