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mercoledì 18 giugno 2014

Femminismofobia: la “retorica femminista” inventata e la censura della violenza di genere

La portata rivoluzionaria del femminismo, rispetto alle menti semplici che elementarizzano ogni concetto, va proprio nel senso opposto rispetto alla banalizzazione. Con questi presupposti non ci possiamo aspettare che i nostri contenuti siano universalmente compresi ed universalmente condivisi. Ci dovremmo, però, aspettare che i nostri contenuti non siano ricostruiti artificiosamente col rischio di attribuire a normali cittadine, a persone come tutte le altre, pensieri che non hanno mai formulato neppure mentalmente, parole che non hanno mai pronunciato, concetti mai messi per iscritto. La conseguenza di questo sistematico processo è la femminismofobia, la quale è funzionale al terrorismo psicologico messo in atto sulle donne affinché non perseguano i propri diritti, non comprendano le ingiustizie che subiscono e si sottomettano docilmente ed autonomamente.
Presto o tardi rivedremo le streghe sui falò, come avviene ancora in Papua Nuova Guinea.
In attesa di biscottare sul mio personale falò, allora, vorrei ancora una volta tentare di spiegare concetti forse ostici in epoca di analfabetismo di ritorno o di analfabetismo funzionale. E anche la perfetta conoscenza grammaticale non sostituisce l’ignoranza semantica.
”Vittima” non è in alcun modo sinonimo di “essere angelicato, puro, innocente, senza macchie, irreprensibile”. Vittima è chi subisce una violenza o un sopruso, indipendentemente da quanto il suo carattere fosse sopportabile.
Che “vittima” non sia sinonimo di “debole, incapace di difendersi, incapace di autodeterminarsi, pavida, fragile” e via dicendo, si è tentato di spiegarlo più e più volte.


Che non sia possibile sostituire la parola “sopravvissuta” a “vittima” sembra abbastanza palese e logico: è “sopravvissuta” colei che non è morta. Se sei stata uccisa, non puoi essere una sopravvissuta e quindi resti una vittima per forza di cose.
Fatte queste premesse, posso finalmente chiarire quanto sia demenziale l’atteggiamento di quelle signore che pensano di guadagnare appeal prendendo le loro “distanze dalla retorica femminista”. Demenziale e distruttivo. Distruttivo e complice.  Nessuna di noi ha mai detto che una donna che venga uccisa dal marito non possa essere stata acida, criticona, insopportabile. Nessuno è perfetto, tutt* veniamo criticat*, nessun* esclus*. La variabile è la risposta alla critica. Si può andare dall’indifferenza alla lite. Non si può arrivare all’omicidio. Quindi, non importa quanto insopportabile possa essere stata una donna, non potrà mai divenire la giustificazione di un femminicidio.
Anche perché si può usare lo stesso strumento e chiedersi cosa o chi abbia reso aspra e dura una donna giudicata acida.  È la TUA società che  tenta di plasmare il femminile alla docilità ed alla remissività, non la nostra. Il femminismo addirittura rivendica il diritto all’arrabbiatura, il diritto alla ribellione, anche il diritto all’aggressività, che nella donna viene sedata e stigmatizzata costantemente sin dall’infanzia. Ciò però non autorizza mai nessun* alla violenza e al sopruso.
Chi ha tolto al genere femminile la propria complessità caratteriale ed è arrivato addirittura a descriverlo come angelicato non è certamente il femminismo. Questa è una costruzione del tutto patriarcale nella quale ci troviamo strette quasi tutte, comprese tante presunte antifemministe (eccetto, forse, Costanza Miriano).
La portata rivoluzionaria del femminismo è proprio nel rivendicare il diritto di essere anche dure, arrabbiate, acide, indisponenti e non essere per questo punite, considerate ribelli e uccise.

La retorica antifemminista, da notare, puntualmente evita di sollevare le stesse osservazioni verso l’assassino. E se fosse stato lui quello nevrotico, acido, criticone, privo di empatia, esasperante? La stragrande maggioranza dei casi di violenza sulle donne confermano il dato perché spessissimo il femminicidio è preceduto da un sistematico annientamento della personalità della donna che verrà poi uccisa, da una costante aggressione e da una escalation di violenze.
E quindi? Qual è la giustificazione di chi cerca di giustificare un assassino?
Non ve ne sono. Fornire alibi, motivazioni, fornire comprensione morale all’omicida è un atteggiamento complice e deresponsabilizzante che fa dell’uomo assassino un grande infante, non autodeterminato, inconsapevole delle proprie azioni, non responsabile delle proprie azioni. Azioni che sono derubricate a reazioni da soggetti esterni ed estranei alla faccenda.
Questa costante deresponsabilizzazione dell’assassino, questa sua infantilizzazione, la trasformazione dell’uomo omicida in un gigantesco bambino da comprendere e proteggere e verso il quale la vittima avrebbe dovuto mostrare sempre una ulteriore comprensione materna, in un’assurda escalation di sottomissione (mai sufficiente per chi guarda dall’esterno), non avviene MAI quando un uomo uccide un altro uomo. Non avviene mai quando parliamo di rapine, di corruzione, di risse che terminano in omicidi, insomma in tutti quegli altri crimini che hanno un agente maschile ma una matrice non di genere.
Prima di tutto, quando un uomo viene ucciso per vendetta mafiosa, per rapina, in una rissa, non c’è assolutamente la stessa mole di polemiche che accompagna un femicidio, a meno che l’assassino non sia un extracomunitario.
In secondo luogo, nessuno si sogna neppure lontanamente di obiettare che forse la vittima maschile avesse provocato, che fosse un avventore del bar stressante e acido, poco comprensivo, eccetera. Nessuno si sogna anche lontanamente di scriverci sopra articoli su articoli condannando l’uso del termine “vittima”.
Quindi, un uomo ucciso da un altro uomo è sempre tranquillamente e liberamente una vittima. Ha un altro diritto che alle donne vogliono togliere.
Nessun* si solleva furente d’indignazione perché tale definizione etichetterebbe un intero genere come debole ed intitolato al ruolo vittimista.
Nessun* obietta che la vittima avrebbe potuto essere più amorevole e comprensiva. Nessun* si permette di condannare moralmente il comportamento sessuale della vittima maschile, quindi non leggerete mai che l’uomo ucciso era un porco o un puttano, che ha provocato e che se lo meritava.

Mi sembra schiacciante l’evidenza del fatto che il problema non sia la presunta criminalizzazione del genere maschile e la vittimizzazione di quello femminile.  Neppure i mascolinisti vengono ad appestare gli articoli sui giornali che riguardano la media criminalità. Il fatto che la maggioranza dei crimini sia commessa da uomini ai danni di altri uomini si accetta e si considera  persino scontato. Non viene considerato offensivo per nessun* e nessun* si sogna neppure lontanamente di smontare questi dati.
Certe questioni si sollevano sempre e solo quando ad essere uccisa è una donna e si sollevano con lo scopo di tranciare l’analisi, di impedire di parlarne. Quando a farlo è un’altra donna, non si può fare a meno di farle osservare i danni che sta facendo, se non ad altre donne, persino a se stessa.

Ogni polemica sul femminicidio è funzionale al rinnovamento della misoginia così come ogni polemica sui delitti commessi da immigrati è funzionale all’alimentazione della xenofobia. Così il femminicidio si ritorce contro le sue stesse vittime e finisce con l’alimentare la concezione normalizzante e giustificatoria dell’arbitrio maschile sul destino delle donne. Questo stesso odioso atteggiamento colpisce anche bambine e ragazzine vittime di stupro e additate come provocatrici o inconsapevoli seduttrici. Siete davvero sicur* di voler continuare in questa direzione?

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